sabato 3 Giugno 2023
spot_img
HomeLetteraturaIntervista con Bruno Enna

Intervista con Bruno Enna

-

La Sardegna Isola delle storie non smette di raccontare. Non solo attraverso le forme classiche della narrativa, della poesia, della fotografia ma anche nell’arte che ingloba le suddette: il fumetto.

Bruno Enna

Negli ultimi anni Bruno Enna, classe 1969, è assurto come uno dei migliori sceneggiatori sardi del fumetto italiano. Non lo diciamo noi di 3PA per amor di patria, ma lo attestano i diversi riconoscimenti quali il premio ANAFI nel 2013 e il premio Micheluzzi nel 2015 entrambi come miglior sceneggiatore. L’occasione per una chiacchierata con Bruno ci è data dalla pubblicazione estiva di Topolino Sunny Edition, volume che raccoglie le “storie raggianti e intramontabili” del nostro interlocutore.

F: Bruno, leggo nella tua biografia che hai iniziato a collaborare nel 1995 con la Disney. Come ci sei arrivato?

Dopo aver concluso gli studi in Sardegna, ho frequentato l’ultimo anno della Scuola del Fumetto di Milano. Lì sono stato selezionato da un “talent scout” esterno, per entrare a far parte del primo corso di sceneggiatura tenuto da Alessandro Sisti, all’Accademia Disney. Terminato il corso, ho cominciato subito a lavorare.

F: In Topolino Sunny Edition, grazie alla pre e postfazione e alle introduzioni per ogni storia, si capisce qualcosa di più dello sceneggiatore. Una sorta di introduzione al proprio lavoro che gratifica le curiosità dei più profani.

Topolino Sunny Edition - Bruno Enna

Sì, sono stato davvero felice di leggere la prefazione di Stefano Petruccelli (oggi Caposervizio Comics di Topolino, ma anche sceneggiatore sopraffino) e la postfazione di Massimo Marconi (nume tutelare di tutti gli sceneggiatori Disney). Loro sono stati davvero troppo gentili, nei miei confronti. Devo ammettere di essermi un po’ commosso.

F: Come è nata la brillante idea di raccontare il giovane Paperino Paperotto? E quali reazioni – se ci sono state – hanno avuto alla Disney americana?

L’idea è nata praticamente alla fine del corso all’Accademia Disney (era il 1995). Insieme ad altri due sceneggiatori (Paola Mulazzi e Diego Fasano) e a un disegnatore (Alessandro Barbucci) abbiamo presentato il progetto all’allora caporedattore: Ezio Sisto. Il progetto è subito passato, ma, all’inizio, nessuno di noi si sarebbe mai aspettato un successo simile. Insomma, raccontare l’infanzia di Paperino (slegandola dal contesto “storico” impostato da certi grandi autori) era un azzardo. Invece, l’alchimia tra il paperotto (caratterizzato in modo particolare: una via di mezzo tra Tom Sawyer e il Calvin di “Calvin e Hobbes”) e Nonna Papera, nonché tra lui e i suoi nuovi amici (Louis, Tom, Millicent e Betty Lou), si è rivelata vincente. La serie oramai è un classico di Topolino. Ci sono state diverse ristampe e, per un certo periodo, è stata pubblicata persino una serie “a parte”. In America, onestamente, non credo che conoscano il paperotto. Il mercato americano è diverso dal nostro, al punto che solo adesso (a distanza di tanti anni) negli USA stanno iniziando a pubblicare PK e X-Mickey. Invece, so che il paperotto è apprezzato in altri paesi europei.

F: Dopo “L’uomo di plastica” di Dylan Dog, Sergio Bonelli ti ha dato la possibilità di una serie tutta tua, Saguaro, che ha fatto conoscere il tuo nome anche ai meno attenti alle dinamiche editoriali fumettistiche. L'uomo di plastica- Dylan Dog - Bruno EnnaSo che per il personaggio di Thorn Kitcheyan ti sei ispirato agli “Shadow Wolves”, gli agenti federali nativi che operano tra Arizona e Messico, per poi approfondire attraverso la sterminata letteratura e saggistica sui nativi americani.

La prima storia che ho pubblicato per Dylan Dog è stata proprio “L’uomo di plastica”. Poi ho continuato a lavorare per la testata (con cui collaboro ancora oggi). Era il 2004. Nel tempo, ho imparato a muovermi all’interno del cosiddetto fumetto realistico (continuando parallelamente a scrivere per quello umoristico) e ho cercato di carpire, da autori più bravi e scafati di me, i metodi di scrittura tipici del genere “bonelliano”. Così, un giorno, ho deciso di proporre un’idea per un Romanzo Grafico (una storia unica, lunga e autoconclusiva), prendendo spunto da un articolo letto su La Repubblica tempo prima. Era un articolo che parlava degli Shadow Wolves: nativi americani introdotti nel corpo federale a partire dal 1972 (proprio gli anni in cui molte riserve erano in fermento). Ancora oggi, i “Lupi nel buio” vengono utilizzati dall’esercito per la loro capacità di seguire le tracce. Il protagonista, Thorn Kitcheyan, sarebbe dunque stato un navajo. L’idea piacque talmente a Sergio Bonelli da chiedermi di farne una serie (all’inizio, pensavo a una miniserie). Decisi di rimboccarmi le maniche e di approfondire l’argomento (che già conoscevo e sul quale avevo raccolto parecchio materiale). Per lavorare alla serie, mi ispirai in un primo momento ai celebri romanzi di Tony Hillerman, ma col tempo cominciai ad allontanarmi dal genere prettamente poliziesco (comunque alla base delle avventure di Thorn) e a interessarmi maggiormente alla condizione sociale e politica dei nativi americani, in generale.

F: Le avventure di Thorn sono ambientate nei primi anni ’70 del secolo scorso. Anni caldi in un’America che non crede più al disincanto dei ’60: il Vietnam, il Watergate, l’FBI che opera illegalmente per spazzare via i diversi movimenti dei diritti civili. Anni in cui l’AIM (American Indian Movement), dopo la sua fondazione del 1968, porta avanti diverse forme di resistenza attiva, la più eclatante delle quali fu l’occupazione nel febbraio 1973 del villaggio di Wounded Knee. Occupazione resa possibile anche per la presenza, tra le file dei nativi, di numerosi veterani del Vietnam, proprio come Saguaro.

Sì, resa possibile dai veterani, ma anche e soprattutto da una nuova presa di “coscienza” da parte dei giovani nativi, essa stessa figlia della distruttiva politica americana. Prima ancora degli eventi che portarono quelli dell’AIM a prendere posizione (occupando l’isola di Alcatraz, marciando per i Trattati Infranti e così via), i nativi subirono infatti una serie di imposizioni che costrinsero gran parte di loro ad abbandonare le riserve e a trasferirsi nelle periferie delle grandi città (stiamo parlando degli anni ’50). Questo tipo di politica si rivelò fallimentare, ma seminò qualcosa: i figli di tutti quei nativi (che mai riuscirono a integrarsi veramente e a prendere parte al cosiddetto “sogno americano”) studiarono, alcuni si laurearono e alfine, logicamente, negli anni ’70, si ribellarono. Nacque così il “Red Power”.

Ecco, nel mio piccolo, con Saguaro, ho tentato di raccontare quegli anni, di far assaporare ai lettori quel clima, di aprire uno spiraglio verso un pezzo di storia che (almeno dalle nuove generazioni, qui in Italia) è quasi sconosciuta. Eppure, uno dei libri che più mi hanno colpito sull’argomento è stato scritto proprio da un italiano: Angelo Quattrocchi (Wounded Knee. Gli indiani alla riscossa- Malatempora).

F: Grazie anche all’opera di figure come Anna Mae Pictou-Aquash, l’AIM riuscì a invertire, laddove e quando possibile, quel lungo processo di forzata integrazione che è tipico di ogni popolo vinto: sia nelle riserve sia nelle città furono avviati nuovi progetti multilingue e multiculturali e grazie a nuovi stimoli da parte degli anziani e dei genitori, in diverse riserve le lingue dei nativi ricomparvero nei programmi scolastici. Ma leggendo le avventure di Thorn, soprattutto a pag 6 dell’ultimo numero, Oltre l’orizzonte, ho risentito le parole del nostro Franziscu Masala: “Il maestro, un uomo severo sempre vestito di nero, ci proibì, a me e ai miei coetanei, di parlare nell’unica lingua che conoscevamo e ci obbligò a parlare in lingua italiana, la «lingua della Patria». La lingua sarda è il linguaggio del grano, (…) ma è, anche, la lingua dei vinti: nelle scuole, invece, viene imposta la lingua dei vincitori.”

Sì, dopo le rivolte e la presa di coscienza collettiva (amplificata dai mass media, che – per esempio – seguirono passo per passo le fasi di occupazione di Wounded Knee), in molti pretesero di tornare, con una nuova consapevolezza, al passato. Il recupero della lingua era solo il primo passo. L’obiettivo era quello di recuperare soprattutto la dignità di un intero popolo, distrutto fisicamente e psicologicamente (ma mai davvero domato). Ora, pur facendo i giusti distinguo, personalmente vedo certe similitudini tra la condizione dei nativi e quella dei sardi. Forse è anche per questo motivo che ho amato molto scrivere le storie di Saguaro.

F: Tra i personaggi a cui hai pensato per la fisicità di Thorn c’è stato anche Val Kilmer, protagonista di Cuore di Tuono, l’adattamento hollywoodiano del documentario Incidente ad Oglala. In quel film si parla di uranio, estratto in molte riserve dei nativi. Ne fai menzione anche tu nel n. 4, Fratelli di sangue: la pagina 34 l’ho letta come un compendio dell’intervista fatta a suo tempo al generale Molteni dalla tv svizzera Rtsi, in cui indicava, pensando di essere a microfono spento, nell’endogamia una delle cause della ‘sindrome di Quirra.

 

“Cominciassero a fare studi genetici …” invitava l’allora comandante del poligono di Perdasdefogu.

Onestamente, non ho pensato a un collegamento. Certamente la questione posta è molto simile. Molti studi hanno dimostrato inquietanti collegamenti tra le malformazioni genetiche e le malattie subìte dai nativi che vivevano a ridosso delle miniere di uranio. Anche in quel caso, sfruttamento a parte, a fare la differenza furono l’ignoranza e la disinformazione. Sembra che gli stessi nativi, in certi casi, usassero i residui degli scarti radioattivi per impastare il cemento delle loro case. Oggi certe cose non potrebbero accadere… almeno, non alla luce del sole. C’è molta più informazione (anche se, talvolta, viene manipolata) e il grado culturale medio è alto, almeno quanto l’attenzione su certi argomenti.

F: L’anno scorso hai vinto il Premio Micheluzzi come miglior sceneggiatore proprio per Saguaro. Un premio postumo l’hai definito. Tornerà Thorn?

L’ho definito postumo perché è arrivato alla fine di un percorso creativo durato più di tre anni, ma non significa che non l’abbia apprezzato. Anzi, mi ha fatto immenso piacere! Purtroppo Thorn ha terminato la sua avventura con il numero 35, anche se, dentro di me, le sue storie e i suoi personaggi continuano a echeggiare. Mi porto dietro un carico di esperienza (culturale, lavorativa, umana) che sto sfruttando anche adesso. A questo proposito, nel 2017 dovrebbe vedere l’edicola un Romanzo Grafico Bonelli che ho scritto per Luigi Siniscalchi: uno dei “pilastri” grafici di Saguaro. Si tratterà di un giallo che prenderà l’avvio proprio dai primi anni ’70. La tematica sarà ben diversa da quella “saguaresca”, ma il team creativo sarà lo stesso. Spero possiate apprezzarlo.

F: Beh, sarà un po’ arduo aspettare sino al 2017… Grazie della chiacchierata Bruno!

 

Articoli correlati

ADV LIBRI

 

Libri

La bambina di Kiev: intervista con Maurizio Onnis

Intervista con Maurizio Onnis, coautore del romanzo La bambina di Kiev, una storia di resilienza e coraggio tra gli orrori del conflitto.

Gigi Riva – Rombo di Tuono: intervista con Davide Piras

Intervista a cura di Franco Arba con Davide Piras, autore del romanzo dedicato al mito di Gigi Riva, uno dei più grandi attaccanti di sempre.

Se la Grande Madre vuole: intervista con Marco Piras-Keller

Letture in quarantena: intervista a cura di Franca Menneas con Marco Piras-Keller, autore del romanzo "Se la grande madre vuole – Arresolútu".

Sa lota ‘e Pratobello: intervista all’autrice Franca Menneas

Sa lota 'e Pratobello: a una settimana dalla presentazione bolognese del libro, quattro chiacchiere in libertà con l'autrice orgolese Franca Menneas.

[Report] Scrittori Sardi a Bologna: Alberto Masala

Alberto Masala protagonista della rassegna Scrittori Sardi a Bologna, promossa dal Circolo Sardegna. Il report della serata a cura di Franca Menneas.